domenica 15 marzo 2009

PARCO DELLA CESANELLA PRIMA PARTE

IL PARCO DELLA CESANELLA:

UN BENE O UNA MERCE ?



Quello che sta accadendo a Senigallia è il frutto di un pervicace rifiuto ad un progetto
pubblico dell’uso della città e del territorio.

E’ quello che avviene quando la visione ed il futuro di una città viene affidato, in modo totale, alla crescita di una economia basata esclusivamente sulla rendita fondiaria-immobiliare e dove la ricchezza (per pochi) nasce dall’assalto di un bene(il territorio) che è di tutti,
con differenza stratosferiche tra il valore investito ed il valore realizzato.

E’ giocoforza che, con una visione esclusivamente economicistica dell’urbanistica, poi il risultato sia lo scombussolamento urbanistico, l’aggressione al territorio e,non ultimo, il disagio dei cittadini.

L’edificazione al parco della Cesanella è l’attacco, nemmeno tanto velato,agli spazi pubblici e agli usi pubblici della città L’erosione degli spazi pubblici ormai ha raggiunto la velocità di una smottamento.

Avevamo già avuto modo di vederlo nel Piano del Centro Storico dove una Piazza è stata individuata come sedime fabbricabile (magari con una spolveratina di social housing. Da dare ai privati?) e con un nobile palazzo già in odore di mini-appartamenti, l’abbiamo visto con la Variante del Lungomare dove aree demaniali debbono fare da corredo ad un intervento privato di edilizia per alto censo e fitness, l’abbiamo visto con lo Stadio Comunale dove , per reperire parcheggi mai richiesti ai privati che si sono dilettati in centinaia di appartamenti nell’intorno, si è dovuto sacrificare il campo di allenamento e lo si è visto anche
nella Variante Arceviese strizzando l’occhio al nuovo mercato del terziario avanzato .

Anche qui, come oggi, a dire che la parte fabbricabile era già stata assegnata in tempi lontani. Beh, qui va a finire che anche per il pubblico i “diritti edificatori” vengono idolatrati come “l’idolum fori” al pari dei privati.

I diritti edificatori sono quella bizzarra teoria (su cui la Cassazione più volte si è espressa)
secondo la quale quando si è attribuita una capacità edificatoria ad un’area, poi questo gentile “cadeau” non può essere tolto al proprietario ( è l’esaltazione della rendita parassitaria più che del profitto.

E pensare che il vincolo per pubblica utilità decade dopo soli cinque anni!)).

L’amministrazione può fare ricorso, beninteso, a questo disinvolto uso di “diritti”, ma almeno
la smetta di cianciare sulla “rottura col passato”, su “new-deal urbanistico”, su nuova attenzione all’ambiente.

Si è dato inizio ad uno sciagurato e aberrante meccanismo di fare fronte alle ristrettezze contingenti di bilancio ed alle spese correnti sacrificando il territorio , ritenuto un valore secondario, e tra l’altro senza nessuno obbligo (come prevedeva la Legge 10/77) di re-investire su di esso.

Questo processo infernale ha portato addirittura, nel caso dell’area di San Gaudenzio, a trattare un vincolo ricognitivo (cioè valore di bene per sua intrinseca natura) con la sufficienza di un semplice vincolo “funzionale o urbanistico”, sempre per ragioni di cassa.

Questi ultimi otto-nove anni hanno visto esaltarsi a ritmi vertiginosi il consumo del suolo favorendo da un lato l’espansione urbana e dall’altro l’espulsione dalla città di una larga fetta di senigalliesi, che si sono dirottati sui paesi limitrofi ( Passo Ripe, Casine ePianello di Ostra, Ponte Rio, Marina di Montemarciano).

C’è di che domandarsi perché l’edilizia senigalliese (che non conosce crisi) non è per i senigalliesi.

l consumo del suolo ha portato anche “al consumo della mobilità.”, dove ad un inalterato

numero di spostamenti si registra un sensibile aumento della lunghezza delle percorrenze (all’Assessore Ceresoni questo dice qualcosa ?).

Insomma qui c’è un territorio che viene considerato non più come un bene ma come una merce, che deve produrre profitto economico. Però, piccola ma importante notizia, qualcosa
sta muovendosi.

Cresce dal basso una spinta, una resistenza di base da parte di chi, in comitati, in gruppi, in associazioni, non ci sta più alle chiacchiere e alle facili promesse delle lingue biforcute.

Preferisce piuttosto “saltare la finestra che mangiare la minestra (avariata)”, e considera il territorio, il paesaggio, il lascito culturale della città come un “bene comune e un bene primario” da difendere al pari dell’aria, dell’acqua, della luce. Nelle prossime battaglie non si accontenteranno più dei soliti segnali di fumo.


articolo tratto dal sito

www.versuscomplanare.com / Ing. Stefano Bernardini

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